mercoledì 4 marzo 2009

«Sì all'assegno di disoccupazione, ma non basta»


Da quanto tempo si parla di precariato? Da tanto, troppo tempo. All'inizio era il mondo della scuola ad avere quasi il monopolio di questa parola legata ad una condizione di lavoro sottile come una lama e in equilibrio come un acrobata. Poi arrivarono i politici e la teorizzazione della flessibilità. E la parola precariato è diventata condizione generale, sofferenza sociale. Ora nelle imprese, alla guida di un autobus, a progettare satelliti o a scrivere articoli ci sono i precari. Il sindacato ne conta sei milioni in Italia.

“Ma vogliamo che ora si smetta di parlare di precariato”, sbotta Salvo Barrano, archeologo e “falsa partita iva” presente al Forum de l'Unità con altri 9 lavoratori (diciamo così) flessibili e al responsabile del Nidil Cgil (anche lui ex precario).
“Vogliamo che si smetta di parlare di precariato – ripete Salvo – perché questo non fa altro che ghettizzarci, ci fa sentire come una anomalia di cui, di volta in volta, si occupa la politica (quando si avvicinano le elezioni) o il sindacato, ma in sostanza serve a tenerci buoni, a tenerci da parte. Parliamo di diritti, di garanzie. Parliamo del fatto che io sono un 'buon azionista' dell'Inps perché ogni mese verso il 25% di quello che guadagno. E lo stesso fa mia moglie, ogni mese. Ma quando è nato il nostro bambino io non ho avuto diritto al congedo di paternità. E così mia moglie è uscita dal mondo del lavoro e io non posso stare a casa per permetterle di rientrare nel giro”.

“Parliamo delle nostre vite, quasi congelate negli affetti, nelle speranze, nelle responsabilità, in attesa di una stabilità lavorativa”, dicono Benedetta Cocchini e Silvia Zino, rispettivamente editor e grafica, lavoratrici precarie e fondatrici del gruppo “Best Before” e della rivista on line “Co.Co.Protesta” (www.rerepre.org).

”O dei tanti che ricorrono agli psicofarmaci o chi può allo psicanalista, se non si lasciano sprofondare in altre dipendenze, come l'alcol o le droghe”, racconta Federico Rizzo ex lavoratore precario di Call Center che ha deciso di realizzare un film (“Fuga dal Call Center” in uscita nelle sale cinematografiche nei prossimi mesi) basato sulla sua esperienza e su centinaia di interviste realizzate in tutta Italia nel 2008.

E così le esperienze i racconti di vita si accavallano, raccontano di continui sradicamenti da una città all'altra, di contratti interrotti dando comunicazione al dipendente la mattina stessa, di colloqui in grandi aziende dalle durate parametrate all'età del pretendente al posto: ”Hai più di quarant'anni? Per te solo tre minuti del nostro tempo”.

“Di uno stato surreale nel quale si sprofonda piano piano – spiega Giampiero Modena Lavoratore precario in un Call Center e dirigente Nidil Cgil Roma – per cui non potendoti comprare né una casa, né un auto, vivi per i piccoli oggetti inutili, compri una fontanina zen solo perché costa 18 euro e te la puoi permettere. Ci si avvicina alla follia”.

“Follia? Già, io follia per follia ho deciso che non potevo continuare a vivere in sospeso, magari fino alla pensione, e ho deciso di non rinunciare a niente. Mi sono sposato, ho comprato una casa (solo grazie all'aiuto dei miei genitori) e ho fatto un figlio. Già una vera follia”, dice Salvo.

Ma quali sono le proposte per uscire da questa situazione, per restituire diritti e speranze ai precari? Qualche giorno fa il Pd ha proposto l'assegnazione di un assegno mensile di disoccupazione per tutti i lavoratori che perdono il posto di lavoro. Proposta che piace ai partecipanti al nostro forum, ma che non è sufficiente.

“Io tecnicamente non perdo il lavoro – dice Andrea Brutti, lavoratore precario “a partita iva” e consulente ambientale – e quindi non potrei rientrare nelle misure proposte dal segretario Pd Franceschini. Si deve accompagnare quella misura con delle soglie minime di salario per chi ha forme contrattuali diverse e per chi svolge comunque lavori qualificati o di responsabilità. E una base che non può essere inferiore ai mille euro”.

“Va bene la proposta del Pd – dice Rossella Perna, lavoratrice precaria Snai e autrice della tesi universitaria “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro…precario” dedicata anche alla rubrica de l'Unità di Bruno Ugolini “Atipiciachi” – ma proviamo anche a spostare l'onere del lavoro anche sulle imprese. Io proporrei di vietare il licenziamento o il non rinnovo di contratto finché l'azienda non trova un altro contratto con il lavoratore”.

“C'è una sola proposta che mi sento di fare – dice Carmelo Introcaso, ingegnere aerospaziale e precario per le società Ortec e Alenia – ed è maturata dopo le mie esperienze in Francia: chi fa un lavoro precario deve essere pagato con cifre più alte. Cifre che devono compensare, ovviamente in parte, la saltuarietà del lavoro”.

“Io sono abbastanza sfiduciata – confessa Roberta Alani, lavoratrice precaria pubblica e Co.co.co. all'Ispra (Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale) – di sicuro, se mai avrò un figlio, gli dirò di non studiare oltre le scuole dell'obbligo. Sono anni persi, nessuno ti riconosce più il tuo livello di istruzione. Io, laureata e con un master, guadagno poche centinaia di euro”.

A raccogliere proposte e lamentele rimane Roberto D'Andrea, Segretario Nidil Cgil: “Io dico no all'idea del Pd dell'assegno di mille euro. Così c'è il rischio che le crisi vengano pagate sempre e solo con tutele pubbliche, mentre quando ci sono ricavi o benefici tutto resti nelle mani dei privati. Inoltre, se si stabilisce che un lavoratore 'costa' mille euro, tutto il mercato si adeguerà al ribasso. L'unica strada per risalire la china è, al contrario, far 'costare' i lavoratori flessibili sempre di più”.


di Cesare Buquicchio

04 marzo 2009

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